Una schiera di nomi stellari non può salvare questo cupo thriller-western del regista Martin Koolhoven.

Il predicatore alto e guercio nel lungo cappotto nero cammina lentamente verso l’altare, il freddo tintinnio dei suoi speroni è il solo suono che si sente nella spartana cappella. Il suo viso magro è segnato dal vento e dalle intemperie. Una volta era bello, ma i suoi lineamenti sono stati a lungo induriti dalla malvagità degli uomini e dalla furia della sua stessa fede. Osservando i parrocchiani, inizia il suo sermone con una voce che è allo stesso tempo ammaliante e inflessibile. “Guardatevi dai falsi profeti…”

E’ impossibile sapere se la sceneggiatura di Brimstone di Martin Koolhoven inizia con queste esatte righe, ma queste cose di solito lo fanno. È un’apertura cazzuta che funziona per tutto, dalle canzoni blues del Delta ai fumetti Manga, ai videogiochi monotoni. E anche se può essere un po’ trito e sofisticato, imposta bene la tavola e permette qualche monologo spavaldo. È una scena divertente da scrivere e da guardare, oltre ad essere un’erba gatta da pelare per gli attori-tipo.

Il problema è che quando il sermone è finito e le porte della chiesa si aprono, scene come queste smettono di scriversi da sole e i carichi pesanti di trama, motivazione, struttura, caratterizzazione e costruzione del mondo vengono aggiunti alle bisacce.

Il film non cede completamente sotto queste richieste, ma non si stabilizza mai veramente abbastanza da partire in una direzione del tutto coerente, distintiva o credibile. I suoi 148 minuti di durata sembrano meno suggestivi di idee grandiose o di portata epica che della speranza dei registi che se continuano a girare le telecamere, l’ispirazione spunterà da dietro una roccia.

Guy Pearce è il predicatore che arriva in una città di berretti neri, coloni del nord Europa pallidi e insulari, allevamenti di maiali e capelloni in stile feroce. Diventa presto evidente che la sua ira biblica è specificamente diretta a Dakota Fanning (muta) e alla sua famiglia adottiva (irrilevante, usa e getta). Fanning-Pearce, naturalmente, hanno una storia lunga e turbolenta che viene raccontata attraverso una serie di capitoli portentosamente intertitolati che si dipanano a ritroso attraverso la loro violenta relazione infastidita da Dio.

Questa struttura a ritroso non è nulla di particolarmente innovativo (Pearce stesso è in forma smagliante nel genere sotto forma di Memento del 2000) ma qui aggiunge significativamente alla trama e dona alla nostra coppia centrale una mistica che – in definitiva – non merita. Pearce si rivela rapidamente non essere altro che un pazzo religioso sessuomane (che si trasforma da puritano in punto di ebollizione a uomo nero onnisciente al tocco di un cappello a tesa larga) e la Fanning un’innocente diventata ingegnosa sopravvissuta che farà di tutto per sfuggire all’ortodossia sanguinaria del suo tormentatore. Questo fa di Brimstone uno spin miltoniano sull’emancipazione femminista, o solo uno slasher movie con le camice?

La strada per l’inferno è notoriamente lastricata di buone intenzioni, e per tutte le Terre Promesse di Brimstone, la saggezza salomonica, gli agnelli sacrificali, gli Inferni e le peregrinazioni nel deserto, è fondamentalmente poco più di un teo-thriller ben vestito e ben concepito con idee – alcune delle quali decenti, ma tutte familiari – un po’ al di sopra della stazione di un folle vendicatore. Se avete un piccolo vuoto nel vostro Rolodex tra Deadwood e The Assassination of Jesse James, questo si inserisce perfettamente, per non essere mai usato.

Pubblicato il 28 settembre 2017

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