Con il 2015 alle porte, abbiamo pensato che fosse un buon momento per guardare indietro ai film che il millennio ci ha portato. Abbiamo scavato negli archivi e stiamo riproponendo i nostri pezzi Best of the 2000s, dal lontano 2009 quando la Playlist era un piccolo sito Blogspot tenuto insieme con nastro adesivo e spago. Ogni lista elenca i 10 migliori film di ogni anno (è possibile che, dopo mezzo decennio, li abbiamo messi in un ordine diverso e abbiamo anche cambiato alcuni dei film, ma abbiamo voluto preservare i pezzi originali il più possibile). Guardate il 2000, 2001, 2002, 2003, 2004 e 2005 se ve li siete persi, e oggi continuiamo con il 2006. Il pezzo originale segue qui sotto, e grazie ai collaboratori passati e presenti che hanno contribuito.

La metà degli anni ’80 è stata incredibilmente forte per i film – abbiamo trattato il 2005 ieri, e abbiamo dovuto espandere la lista perché era un anno così buono, mentre il 2007 (in arrivo domani) ha avuto molti dei migliori film dell’intero decennio. Tra i due, il 2006 è meno immediatamente impilato di bontà, ma col tempo si è rivelato come un anno veramente grande per il cinema di genere. Giovani autori hanno preso il western, il film poliziesco, il film di fantascienza, il film di gangster, e persino il genere “insegnante ispiratore”, e li hanno trasformati in film intelligenti e sovversivi come quelli che seguono. Anche il film di Bond è stato reinventato, e con più successo di quanto si potesse immaginare.

Altrove, Martin Scorsese ha finalmente vinto un Oscar atteso da tempo per “The Departed”, e Ken Loach ha preso la Palma d’Oro per “The Wind That Shakes The Barley” (anche se entrambi sono esempi di registi premiati più per il lavoro passato che per i loro migliori film; in particolare considerando la presenza dei film di Cannes, “Volver”, “Pan’s Labyrinth” e “Red Road”)

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Blockbuster-wise, il gonfiato “Pirati dei Caraibi: Dead Man’s Chest” ha dominato, perdendo gran parte del fascino dell’originale, mentre “X-Men: The Last Stand” e “Mission: Impossible III” si sono dimostrati sequel insoddisfacenti, e “Il Codice Da Vinci” ha fatto un sacco di soldi, nonostante sia facilmente uno dei peggiori film del decennio. Sul lato positivo, “Borat” si è rivelato il colpo dormiente dell’anno, e “Il diavolo veste Prada” ha sorpreso dimostrando di essere uno dei migliori chick flicks (amico, odiamo questo termine) in qualche tempo.

10. “The Fountain”
Tomas si immerge nel profondo della giungla, alla ricerca della Fonte della Giovinezza, Tommy (Hugh Jackman) sta cercando di spingere la scienza moderna fino al limite per porre fine alle sofferenze di sua moglie (Rachel Weisz), mentre Tom naviga attraverso lo spazio e il tempo alla ricerca di Xibalba, l’albero che porterà la vita alla sua amante morta da tempo. La discussione sul fatto che tutti e tre siano reali, e la stessa persona, è una discussione con più lati e che sottolinea solo le molteplici interpretazioni che possono essere date all’intensa meditazione di Darren Aronofsky sull’amore, la mortalità e l’accettazione. Originariamente impostato come un’avventura fantascientifica post-“Matrix” a grande budget con Brad Pitt, “The Fountain” alla fine è diventato un piccolo progetto molto più soddisfacente. Un racconto intimo e secolare su come la morte sia davvero la strada per la meraviglia.

9 “Le vite degli altri”
Con la sua paranoia a fuoco lento e le interpretazioni perfette, il premio Oscar di Florian Henckel von Donnersmarck “Le vite degli altri” (ha battuto “Pan’s Labyrinth” tra gli altri) funziona come un film di suspense politica per la maggior parte del suo tempo. La storia di un poliziotto segreto della Germania dell’Est (Ulrich Muhe, che sarebbe morto sei mesi dopo questa avvincente svolta) che passa la maggior parte del film ad ascoltare le vite di una coppia di artisti (Sebastian Koch e Martina Gedeck), un drammaturgo e un’attrice sospettati di nutrire simpatie occidentali, ti entra davvero sotto pelle. Man mano che la tragedia aumenta, e la linea tra l’ascoltare e il farsi coinvolgere sfuma, la tensione sale. Ma è la scena finale, troppo devastante per rivelarla a chi non l’ha ancora vista, che dà il colpo di grazia. Se solo ogni thriller storico fosse così toccante.

8. “Children Of Men”
Per un film che è, almeno apparentemente, di fantascienza (crea una delle più coerenti e affascinanti distopie futuristiche mai viste sullo schermo), “Children of Men” riassume la nostra guerra al terrorismo, l’era del panico da immigrazione meglio di qualsiasi dramma contemporaneo. È impossibile parlarne senza menzionare le sue bravissime riprese di inseguimento assistite da CGI, che immergono lo spettatore ancora più profondamente in questa cupa e terribile visione della Gran Bretagna nel 2027. Concentrandosi sulla prima donna incinta sulla Terra dopo due decenni di infertilità umana globale, è un film ferocemente politico e cupo, ma anche uno che non ha paura di essere giocoso (l’omaggio ai Pink Floyd, per esempio, o Michael Caine che suona Aphex Twin), rimanendo miracolosamente emozionante, divertente e commovente in egual misura per tutto il tempo. Nonostante gli ottimi commenti all’uscita, il capolavoro di Alfonso Cuarón è stato trascurato dal pubblico, ma non potrà che migliorare e arricchirsi man mano che ci avviciniamo al futuro che predice.

7. “Brick”
Sulla carta, il concetto di sposare un linguaggio hard boiled, stilizzato, alla Chandler, con un’ambientazione liceale contemporanea, sembra a dir poco losco. Tuttavia, il debutto dello scrittore/regista Rian Johnson funziona grazie alla sua ostinata insistenza nel giocare dritto e lasciare che il pubblico trovi la sua strada attraverso il dialogo arcaico fino al mistero al centro. Brillantemente inquadrato e fotografato (per non parlare del fatto che è stato realizzato a basso costo, con Johnson che ha girato per lo più con una o due riprese al massimo), e sostenuto da interpretazioni impavide del suo giovane cast, tra cui un Joseph Gordon-Levitt che ha voltato pagina nella sua carriera, “Brick” si distingue come una delle storie poliziesche più particolari e originali degli ultimi anni, e annuncia l’arrivo di un grande talento registico.

6. “Half Nelson”
Pensieratamente girato e attentamente osservato, l’innegabilmente sicuro studio del personaggio di Ryan Fleck e Anna Boden su un’improbabile amicizia insegnante-studente nel centro urbano di Brooklyn è una rara opera di moderazione e un notevole film di debutto. Con una sorprendente performance, candidata all’Oscar, di un allora ventiseienne Ryan Gosling nei panni di un tossicodipendente, allenatore di pallacanestro e insegnante di storia, e un’altrettanto eccezionale interpretazione della nuova arrivata Shareeka Epps nei panni di una studentessa di strada della scuola media, l’impressionante dramma indie è uno sguardo attento ed educato sulle dinamiche, la razza e le famiglie improvvisate. Contrassegnato da un obiettivo crudo e non sentimentale e da una colonna sonora ambientale meditativa (con tracce strumentali dei rocker orchestrali Broken Social Scene), Fleck e Boden prendono una storia di relazioni familiare e potenzialmente prevedibile e la impregnano di un punto di vista politicamente personale, fortemente convincente, ma editorialmente neutrale, che rifiuta di prendere facili scorciatoie.

5. “United 93”
Come ogni processo di lutto, la risposta di Hollywood ai terribili eventi dell’11 settembre è stata graduale – dalla rimozione del World Trade Center da film come “Zoolander” e “Spider-Man”, alla rabbia spostata di film di vendetta come “Kill Bill” e “Man on Fire”. A metà del decennio, persino il ragazzo d’oro Steven Spielberg stava usando immagini esplicite dell’11 settembre nel suo tentpolo “La guerra dei mondi”, e sembrava che fosse giunto il momento di affrontare il giorno stesso. E non avremmo potuto chiedere un regista migliore di Paul Greengrass. L’approccio misurato e sobrio del docu-drama è stato chiaramente quello giusto (in particolare se messo a confronto con lo sconsiderato “World Trade Center” di Oliver Stone) – ha reso un vero omaggio agli eroi di United 93, pur permettendo a Greengrass di aumentare la tensione a livelli quasi insopportabili (ricordiamo vividamente che diverse persone sono fuggite dalla nostra proiezione mentre erano in iperventilazione durante le sezioni finali).

4. “L’Enfant”
Nel 1988, Paul Schrader ha reimmaginato il classico “Pickpocket” di Robert Bresson come un dramma criminale incentrato su un accompagnatore narcisista che si crede al di sopra della legge. Concettualmente, il suo “American Gigolo” funziona – anche il protagonista di “Pickpocket” si considera un “superuomo”, e l’egoismo è alla fine la sua rovina – ma dove Schrader ha sbagliato è stato scambiare l’automatismo di Bresson per vuoto emotivo. Quasi due decenni dopo, Jean-Pierre e Luc Dardenne hanno tentato una loro versione di “Pickpocket” con lo straziante “L’Enfant”, un titolo che si riferisce sia al bambino di nove giorni del film sia al giovane padre immaturo che lo vende – un errore fatale che condanna l’anima dell’uomo e lo spinge alla ricerca della salvezza spirituale. Ci sono differenze di principio nell’approccio dei Dardennes (lunghe riprese con cinepresa a mano) e quello di Bresson (un maestro del montaggio a montaggio rapido), ma quando “L’Enfant” raggiunge il suo “momento di grazia” – uno sorprendentemente simile a quello di “Pickpocket” – non si può negare il confronto.

3. “Old Joy”
“…Trasformativo, sorprendente, sono in un posto completamente nuovo ora”, dice il Kurt dell’indie-rocker Will Oldham, un delirante, spettinato trentenne ancora aggrappato all’idealismo giovanile e irrealistico. L’altro, Daniel London, è silenziosamente alle prese con l’imminente paternità in una famiglia stressata. Introspettivo, idilliaco e malinconico, il tranquillo e potente diario di viaggio di Kelly Reichardt sulle epoche passate e sull’amicizia, guidato da una colonna sonora serena e atmosfericamente popolare degli Yo La Tengo, è un capolavoro tranquillo, ma penetrante. La storia segue una coppia di ex migliori amici che fanno un viaggio in macchina verso una sorgente termale di Portland e scoprono di essere decisamente fuori sintonia con i ritmi di vita dell’altro. Minimalista e poco narrativo, il quadro riflessivo – il paesaggio bucolico allude anche alla decadenza e all’incertezza dell’America, che riecheggia anche nelle sottili, ma costanti, radiocronache – è un’acuta espressione di un’amicizia tesa, ma con legami difficili da spezzare.

2. “The Proposition”
“Australia. Che diavolo di fresco è questo?”. Considerando l’assoluta brutalità dell’outback australiano, è sorprendente che non ci siano state più grandi riprese del genere western da laggiù. Ma, ragazzi, l’attesa è valsa la pena per “The Proposition” del regista John Hillcoat. Riunendo Nick Cave, che era anche dietro la sceneggiatura del debutto di Hillcoat “Ghosts…of the Civil Dead”, la storia assume le qualità mitiche di alcuni dei migliori lavori di Cave, aiutati non poco dalla sua colonna sonora con il collega Bad Seed Warren Ellis – probabilmente il nostro preferito tra i lavori cinematografici del musicista. È un piccolo film brutto e sporco, che ricorda il meglio di Peckinpah, con un cast fantastico (John Hurt e Danny Huston sono i migliori) sepolto sotto strati di sangue, sporco e sudore – queste sono persone che combattono contro un paesaggio infinito e senza Dio, e stanno perdendo. Inoltre, ha la migliore scena di testa che esplode degli anni ’00…

1. “Volver”
Ambientato in un ventoso e superstizioso villaggio spagnolo, il melodramma tremendamente ricco di Pedro Almodóvar brilla di passione vibrante e colorata e di malinconia familiare. La combinazione degli habitué di Almodóvar è ispirata; la voluttuosa Penélope Cruz ci ricorda quanto sia sorprendente quando recita nella sua lingua nativa (è stata nominata all’Oscar e ha vinto un premio come attrice a Cannes), inoltre Blanca Portillo e Lola Dueñas fanno accenti perfettamente complementari. Il titolo del film (“Return” in inglese) fa eco al ritorno/resurrezione della madre delle sorelle protagoniste, che si crede essere un fantasma (e interpretata dall’ex musa di Almodóvar Carmen Maura, che torna a lavorare con l’autore dopo una rottura durata un decennio). Impreziosito dalla colonna sonora di Alberto Iglesias, l’intricato, e a volte comico, thriller hitchcockiano è in definitiva una considerazione profondamente sentita sulla morte, la famiglia e il perdono. Uno dei migliori del decennio e un’opera profondamente toccante.

Menzione speciale d’onore:
“The Death of Mr. Lazarescu”
In questa satira mordace, un uomo morente si trova alla mercé del sistema sanitario rumeno mentre muore lentamente davanti a tutti, impotente a fermare la sua sepoltura sotto un mare di burocrazia. La commedia nera di Cristi Puiu ha dato il via a quella che tutti considerano la New Wave rumena, e gli echi di questo film si sentono ancora nella sua cupa e opprimente visione del mondo, nel suo protagonista comicamente sopraffatto e nella sua mortalità estremamente imperfetta.

Per Vostra Mite Considerazione
“Babel”
Non si può negare che “Babel” sia un porno tragedia in parte manipolativo, con una concezione trita e ritrita – un’altra delle trovate di Guillermo Arriaga in cui il mondo è tutto interconnesso. Tuttavia lo sceneggiatore divorzierà per sempre dal regista Alejandro González Iñárritu dopo questo film, e ci piacerebbe credere che la deviazione del cineasta dal testo sia la ragione per cui il film non è uno spreco totale (il tiepido debutto di Arriaga alla regia, “The Burning Plain”, suggeriva che l’uomo era a corto di creatività). La multinarrativa prodotta traccia come un atto apparentemente senza senso – un cacciatore giapponese dà un fucile a un allevatore di capre marocchino i cui figli sparano inavvertitamente a un turista americano mentre i loro figli sono bloccati in Messico – può avere conseguenze a catena in tutto il pianeta. Eppure, da sole, le storie sono completamente assorbenti e profondamente commoventi (Cate Blanchett, Brad Pitt, Gael Garcia Bernal sono notevoli, e Adriana Barraza e Rinko Kikuchi si guadagnerebbero una nomination all’Oscar per le loro performance emotivamente nude e strazianti). Per tutte le sue rozze macchinazioni – il concetto più pedestre è che le lingue del mondo portano a una cattiva comunicazione – quando la storia è in pieno svolgimento, non si può negare che alcune scene sono una rappresentazione tremendamente incisiva della sofferenza universale del genere umano: Il debutto alla regia di Tommy Lee Jones, “The Three Burials Of Melquiades Estrada”; l’eccellente film di Christopher Nolan, tra un film di Batman e l’altro e un mago rivale, “The Prestige”, con Hugh Jackman e Christian Bale; la favola fantastica di Guillermo del Toro, “Pan’s Labyrinth”; l’anacronistica alienazione adolescenziale di Sofia Coppola ambientata nel XVI secolo, “Marie Antoinette”; Il superbo reboot del franchise di Bond di Martin Campbell con “Casino Royale”; il remake di “Infernal Affairs” di Martin Scorsese “The Departed” (che è stato in TV così tante volte che il suo potere si è esaurito); “Clean” di Oliver Assayas, che ha una performance vincente a Cannes di Maggie Cheung come tossicodipendente in difficoltà; e l’ultimo capitolo della sua trilogia della vendetta di Park Chan-Wook, il meravigliosamente ossessionante “Lady Vengeance”.” Inoltre, abbiamo dimenticato di dare amore all’oltre-strambo “Inland Empire” di David Lynch.

Altri film che meritano una menzione includono l’ultimo film di Robert Altman, “A Prairie Home Companion”; L’Aztec-thriller di Mel Gibson, “Apocalypto”; il cinetico (forse troppo cinetico) “Perfume: The Story of a Murderer” di Tom Tykwer; l’erotico low-budget di John Cameron Mitchell, “Shortbus”; l’adattamento live-action rotoscoped di Philip K. Dick, “A Scanner Darkly”; il più grande successo commerciale di Spike Lee, il divertente film di rapine, “Inside Man”; l’imperfetto, ma interessante “Miami Vice” di Michael Mann; l’ingiustamente maltrattato “Superman Returns” di Bryan Singer; l’ironica osservazione di Nicole Holofcener, “Friends with Money”, il sopravvalutato, ma vivace horror “The Descent”, e “13 Tzameti”.

– Kevin Jagernauth, Rodrigo Perez, Drew Taylor, Sam Mac, Oli Lyttelton &

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