Il jazz può non avere un annuario ufficiale, ma ha una discografia vasta e ben documentata. ‘Year by Year’ è il nostro tentativo di portarvi gli album più degni di nota di ogni anno, completi di campioni audio e storie affascinanti. Speriamo che vi uniate a noi mentre viaggiamo attraverso la storia infinitamente affascinante della musica, fermandoci ogni 12 mesi lungo la linea temporale del jazz.

Miles Davis, Kind of Blue (Columbia)

Nel 1959, Miles Davis era diventato uno dei più grandi nomi del jazz e proprio come altri musicisti guardavano a lui per una guida, lui cercava altri artisti che potessero influenzare la direzione della sua musica. Così, quando il pianista Bill Evans lo introdusse alla modalità mostrandogli le opere dei compositori classici Béla Bartók e Maurice Ravel, scoprì la possibilità di liberare l’improvvisazione de-enfatizzando gli accordi. Kind of Blue divenne il suo primo album di jazz modale, distanziandolo dall’hard bop e plasmando lo stile dominante del jazz per la maggior parte del decennio successivo. Regolarmente considerato come la quintessenza del jazz, da “So What” a “Flamenco Sketches”, attira la gente in un ambiente ultraterreno e rilassato con un’eleganza e una raffinatezza senza pari. Il fatto che sia stato registrato al volo lo rende ancora più impressionante; un documento della bellezza della spontaneità e della chimica condivisa da Davis, Evans, i sassofonisti John Coltrane e Cannonball Adderley, il bassista Paul Chambers e il batterista Jimmy Cobb, con Wynton Kelly che sostituisce Evans in “Freddie Freeloader.”

Charles Mingus, Mingus Ah Um (Columbia)

In un anno eccezionale per il jazz, segnato dal sublime minimalismo di Kind of Blue di Miles Davis e dalla sperimentazione d’avanguardia di The Shape of Jazz to Come di Ornette Coleman, Charles Mingus afferma la sua indipendenza artistica con un lavoro magistrale ed eclettico. Firmato alla Columbia dal suo amico, il produttore Teo Macero (le cui innovative tecniche di splicing contribuiscono molto al suono di questo album), Mingus prese le distanze dal modernismo di terza generazione per dare libero sfogo alla sua creatività in Mingus Ah Um, eseguito da un’incarnazione di otto elementi del suo Jazz Workshop ensemble. Ciò che colpisce di questo LP non è solo la diversità del materiale – che va dal gospel influenzato “Better Git It in Your Soul”, all’inno satirico anti-segregazione “Fables of Faubus” passando per la sentita ballata per Lester Young, “Goodbye Pork Pie Hat”. E’ anche il modo in cui, nonostante questa diversità, ogni brano è così ben definito dalla sensibilità e dall’approccio immediatamente riconoscibile del bassista/compositore – motivo per cui Mingus Ah Um è stato definito l’album che meglio riassume tutto ciò che Mingus poteva fare.

Art Blakey and the Jazz Messengers, Moanin’ (Blue Note)

Art Blakey sentiva che il jazz non riceveva l’attenzione che giustamente meritava e che la sua missione era di diffondere il suo messaggio a quante più persone possibile. Il successo commerciale di Moanin’ lo aiutò a farlo, cementando la reputazione del suo gruppo Jazz Messengers, guadagnandosi nel processo la reputazione di archetipo dell’hard bop – il che sembrava giusto, dato che aveva contribuito a coniare il termine tre anni prima. Il sassofonista Benny Golson giocò una grande parte nel successo del gruppo, diventandone di fatto il direttore musicale in questo periodo. Il suo impatto fu così grande che Alan Goldsher scrive: “Art Blakey non avrebbe potuto salvare il jazz se Benny Golson non avesse salvato i Jazz Messengers”. Fu Golson ad assemblare una delle sue formazioni più iconiche, con il trombettista Lee Morgan, il pianista Bobby Timmons e il bassista Jymie Merritt, che, come lui, erano tutti nativi di Filadelfia. Curò anche la tracklist dell’LP, contribuendo con tre canzoni sue, tra cui l’entusiasmante “Blues March”, e incoraggiando il ventiduenne Timmons a scrivere la title track, che non solo divenne un modello di soul jazz ma anche il più grande successo della carriera di Blakey.

Dave Brubeck Quartet, Time Out (Columbia)

In un’epoca in cui il jazz era ampiamente strutturato intorno alle battute standard di 4/4 e 3/4, Time Out del Dave Brubeck Quartet emerse come una ventata di aria fresca “cool”. Dave Brubeck fu uno dei pianisti più popolari degli anni ’50, il cui modo di suonare con due accordi a blocchi e la cui composizione fu influenzata tanto dal jazz quanto da un’infinita varietà di altra musica. Aveva anche una predilezione per i metri dispari e la sua sperimentazione con i ritmi raggiunse l’apice in questo album. A partire da “Blue Rondo á la Turk”, una cerebrale fusione di jazz con ritmi popolari turchi che riesce ancora a oscillare, ogni pezzo sembra un’avventura melodica e un mini capolavoro. Al centro di questa impressionante tracklist cade “Take Five”, il delizioso ma improbabile singolo jazz più venduto di tutti i tempi che il suo compositore, il sassofonista Paul Desmond, ha notoriamente ammesso che doveva essere semplicemente un assolo di batteria per Joe Morello. La Columbia esitò a pubblicare Time Out e la critica lo stroncò. Il pubblico, invece, lo amò, e la longevità di questo album dimostra che gli “esperti” non hanno sempre ragione…

Ornette Coleman, The Shape of Jazz to Come (Atlantic)

Il sassofonista-compositore Ornette Coleman sentiva che il jazz poteva e doveva esprimere una gamma di emozioni più ampia di quella che aveva avuto fino a quel momento. Tuttavia, la mancanza di successo e di supporto che aveva ricevuto lo spinse quasi a mollare prima che il produttore della Atlantic Nesuhi Ertegun gli offrisse il contratto che gli permise di registrare The Shape of Jazz to Come. Figura polarizzante che suonava musica che a molti sembrava impenetrabilmente sgradevole, Coleman divenne il pioniere del free jazz, un tipo di jazz politicamente carico che contrastava il suo equivalente mainstream e sfidava sia i musicisti che gli ascoltatori a pensare fuori dagli schemi rompendo le convenzioni. The Shape of Jazz to Come fu registrato con un gruppo di musicisti che la pensavano come lui; il trombettista Don Cherry, il bassista Charlie Haden e il batterista Billy Higgins avevano sensibilità che tendevano all’avanguardia. Eppure, nonostante la frantumazione della struttura armonica e la libera veemenza degli assoli, The Shape of Jazz to Come si colloca tra le registrazioni più melodiche di Coleman, e presenta un’influenza del bebop che è particolarmente prominente in brani come la straziante “Lonely Woman” (una delle poche sue composizioni ad ottenere lo status di standard jazz) e la più ottimista “Chronology”: João Gilberto, Chega de Saudade (Odeon); Sun Ra, Jazz in Silhouette (Saturn); Ella Fitzgerald, Ella Fitzgerald Sings the George and Ira Gershwin Song Book (Verve); Bill Evans Trio, Everybody Digs Bill Evans (Riverside); Dizzy Gillespie, Sonny Stitt and Sonny Rollins, Sonny Side Up (Verve).

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