Se c’è una costruzione giapponese che meriterebbe un premio speciale per la multifunzionalità, è il condizionale. Mentre esprimere qualcosa di simile a “Se A, allora B” si verifica in quasi tutte le lingue, il giapponese sembra aver sviluppato una passione molto speciale per tali costruzioni.
La clausola condizionale giapponese normalmente prende una delle seguenti forme alla fine: -to, -eba, -tara o -nara(ba). Le differenze semantiche sono sottili, e può essere necessario un po’ di tempo per capire quale forma usare quando.
Prendiamo la clausola 飲みすぎると (nomisugiruo to, se bevi troppo). Avrà ben altre sfumature in termini di causalità, intenzionalità e (in)evitabilità se cambiato in 飲みすぎれば (nomisugireba), 飲みすぎたら (nomisugitara), o 飲みすぎるなら (nomisugiru nara). La sbornia con cui vi ritroverete il giorno dopo sarà lo stesso, però.
Le forme condizionali sono anche comunemente usate per esprimere un obbligo, come per compensare l’inesistenza di un verbo per “deve”. Infatti, il modo giapponese di dire “qualcosa deve essere fatto” è più simile a “non va bene se non viene fatto”. Se devo andarmene ora, per esempio, lo annuncio dicendo, 行かなければならない (ikanakereba naranai), o più brevemente, 行かなきゃ (ikanakya), che è letteralmente, “Non va bene se non vado.” Usando due negazioni, me ne vado dalla porta di servizio, per così dire.
D’altra parte, le costruzioni condizionali si accoppiano anche con espressioni positive, in particolare いい (ii, buono) o 良い (yoi, buono). Questo produce un’intera batteria di possibili significati che ruotano intorno all’idea di “è buono/OK se”. Ecco alcuni esempi: どうしたらいいですか? (dō shitara ii desu ka, “Cosa dovrei fare?”), 謝ればいいのに (ayamareba ii no ni, “Perché non ti scusi?”) o, come disse una volta un mio amico lasciando la sua auto nel parcheggio di un ristorante senza l’intenzione di mangiarci: 何か言われたら食って行けばいい話だから (nanika iwaretara kutte ikeba ii hanashi dakara, “Se mi rimproverano, posso ancora andare a mangiare lì”).
I suggerimenti sono un altro posto dove fare attenzione ai condizionali. Sono combinati con どう (dō, come), come in 自分で試してみればどう? (jibun de tameshite mireba dō, “Che ne dici di provare tu stesso?”), con la parte どう possibilmente omessa, sebbene ciò non sia del tutto senza conseguenze. Per esempio, 勝手に すれば? (katte ni sureba, “Perché non fai come ti pare?”) molto probabilmente non è un incoraggiamento amichevole ma un brontolio piuttosto dispiaciuto, “Fai quello che vuoi allora”.
Il condizionale è anche un ingrediente importante nella zuppa quotidiana della cortesia. Se volete che qualcuno faccia qualcosa, potete comunicarlo educatamente usando la frase いただければ幸いです (itadakereba saiwai desu) – una replica quasi identica dell’inglese, “I would be glad if you could.” Un esempio standard è ご出席いただければ幸いです(go-shusseki itadakereba saiwai desu, “Saremmo felici se tu potessi partecipare”).
Anche indispensabili nella vita quotidiana sono le tre espressioni condizionali そうしたら (sō shitara), そうすれば (sō sureba) e そうすると (sō suruto). Significano qualcosa come “se questo è il caso, allora” e quindi fanno un ottimo lavoro nel collegare le parti precedenti e quelle successive in un discorso. Se la connessione fattuale tra queste parti non è così ovvia, la frase そういえば (sō ieba, parlando di che), anch’essa basata su un condizionale, torna utile.
I condizionali sono comuni anche nelle lamentele e in altre rimostranze. Di particolare rilievo sono le due forme -(t)tara e -teba, una forma abbreviata del precedente といえば. Si attaccano o direttamente al bersaglio della critica o alla fine della frase, come in 彼ったら何も分かってくれない (kare ttara nani mo wakatte kurenai, “Non capisce proprio niente”) o だから違うってば (dakara chigau tteba, “Ti sto dicendo che ti sbagli!”).
Uno degli usi più sconcertanti del condizionale è per il semplice scopo di enumerare. “Se c’è A c’è anche B” è l’idea alla base, e genera frasi come 好きという人もいれば、そうでない人もいる (suki to iu hito mo ireba, sō de nai hito mo iru, “Ad alcuni piace, ad altri no”). Se vi piacciono le dichiarazioni non impegnative, questo condizionale fa per voi.
E il condizionale è così popolare che i suoi suffissi hanno persino una vita propria: la frase tara-reba, come in たられば言っても仕方ない (tarareba itte mo shikata nai, “È inutile pensare a woulda, coulda, shoulda”). Questa frase fa anche parte del titolo della popolare serie manga東京 タラレバ娘 (Tōkyō Tarareba Musume, “Tokyo Tarareba Girls”), su un gruppo di donne che sognano sempre i loro “se”, che è stato trasformato in un dramma televisivo e trasmesso all’inizio dell’anno.
Finalmente c’è il condizionale per finire tutto. Anche se poche persone ne sono consapevoli, la formula d’addio さようなら (sayōnara) deriva dalla costruzione del se 左様なら(ば) (sayō nara ba). Il suo significato? Beh, addio, “se le cose stanno così”.
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