“Far-Flung Poems and Front-Page Headlines”
Questa storia registra un momento cruciale durante il mio ultimo anno di liceo a Brooklyn N.Y., ma ha anche una componente che si riferisce a Cornell. Per il momento, cominciamo con quella scuola. Era una scuola “preparatoria” per pendolari che enfatizzava – come facevano tali istituzioni all’epoca – l’istruzione linguistica: quattro anni di latino classico e tre anni di una lingua moderna. La teoria era che non si poteva padroneggiare e comunicare qualcosa di valido se non si capiva come funziona la lingua, e il modo migliore per farlo era lo studio delle lingue straniere. Imbrigliato in un percorso Honors che aggiungeva tre estenuanti anni di greco antico al mix, ho maledetto il mio destino. Il tedesco – la lingua moderna assegnatami da coloro che pensavano che sarei diventato uno scienziato e mi sarei divertito a spulciare gli archivi delle ricerche teutoniche – sembrava meno problematico del latino o del greco. I miei vicini di casa erano tedesco-americani e sarebbe stato divertente lanciare ein paar Worte oltre il recinto del cortile. Eppure, fu attraverso le lingue antiche, e specialmente il latino, che iniziò la mia educazione alla poesia.
Il latino dell’ultimo anno prevedeva una lettura dell’Eneide di Vergilio in latino. Il nostro insegnante era un poeta pubblicato di recente, elogiato dalla celebre Marianne Moore, la quale pensava che le buone poesie incarnassero “giardini immaginari con rospi reali dentro”. Ditelo a una trentina di adolescenti che parlano come Bernie Sanders ed ecco cosa otterreste: “È un . . . poeta? Meh.” Ma giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, questo poeta da salotto ci ha insegnato a trovare i rospi insospettabili negli esametri di Vergil. Non sono del tutto sicuro di quando tutto ciò ha cominciato a mettere radici, ma certamente è diventato più profondo quanto più mi sono piegato alla famosa economia verbale di Vergil, mentre sostantivi ellittici, verbi sospesi e un ordine di parole intrecciate sostituivano la logica ordinaria con una complessa realtà a più livelli.
Un esempio avviene all’inizio dell’Eneide. Il suo eroe, un rifugiato migrante che fugge dalla guerra di Troia attraverso mari tempestosi e falsi paradisi, è approdato nell’Africa settentrionale. Lì trova un quadro artistico che rappresenta il combattimento che si è lasciato alle spalle. “Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangent” ‘Qui (scorrono le mie) lacrime per le cose (che abbiamo sofferto) e le cose che muoiono muovono (la mia) mente’ (1.462, dove le parole tra parentesi non hanno un equivalente diretto nell’originale latino). La frase lacrimae rerum – forse la più famosa di Vergilio, anche per i lettori senza latino – è inquietantemente enigmatica, sebbene la frase che domina sia semplice: “(Queste) sono (le) lacrime delle cose”. La sua scarna forma soggetto-verbo afferma solo che “lacrime-lacrimae-happen”, implicando l’oggetto delle lacrime nell’altrettanto scarno rerum “delle cose”. Quali “cose”? Speranze? Paure? Ricordi? Perdite? La violenza? Inganno? E come il sostantivo e l’aggettivo che lo seguono limitano o espandono le possibilità: mentem, la ‘mente’ di Enea che assapora la propria vulnerabilità? mortalia, ‘resti mortali’ attribuiti tanto all’eroe quanto ai suoi compatrioti morti? L’idea che questo poema epico sulla guerra e sul destino di Roma potesse interrogare la guerra e gli scopi dell’impero si rivelò trasformativa. Questo era ciò che il nostro insegnante-poeta ci spingeva a cercare: i rospi tossici che avremmo potuto rivelare e contestare.
All’incirca nello stesso periodo, il mio insegnante di tedesco – intenso e affabile come il suo collega di latino – cominciò a proporci poesie in quella lingua di August Stramm, Bertolt Brecht, Franz Werfel: poesie sui fatti brutali della storia del ventesimo secolo, la patologia della guerra mondiale, e il destino delle minoranze etniche nella Germania nazista. Anch’esse mi fecero un’impressione profonda, specialmente quelle che tenevano uno specchio inquietante del trattamento delle minoranze nell’America degli anni ’60. Le mie letture guadagnarono slancio man mano che il tempo passava, fremendo di una emergente consapevolezza dell’ingiustizia sociale e della discriminazione razziale, ineluttabilmente verso la Marcia su Washington del Dr. Martin Luther King e la mia faccia in una foto in prima pagina del New York Times (vero, una faccia tra 250.000 sul Mall, ma comunque una faccia). Ecco le Trasformative Humanities in chiave minore.
Come si è scoperto, a metà degli anni ’60 il tedesco era diventato il mio corso di laurea, completato da un corso minore di francese e italiano che, per mancanza di istruzioni, ho fatto a modo mio. Alla fine del decennio stavo completando la mia tesi di dottorato in (indovinate un po’) Letteratura Comparata, con un mini-capitolo sull’Eneide di Vergil tra capitoli più lunghi sull’epica rinascimentale. Un giorno di primavera del 1970 mi imbattei in altre tre foto in prima pagina sul New York Times: una frontale e due laterali del mio insegnante di latino del liceo. L’FBI lo aveva inserito nella sua lista dei Dieci Più Ricercati con l’avviso che era in libertà e fuori dalla vista, un criminale e fuggitivo dalla giustizia. Ecco la Transformative Humanities in chiave maggiore.
E qui entra in gioco Cornell. Non so quanti lettori riconoscono il nome di Daniel Berrigan, un prete gesuita che nel 1965 ha co-fondato un gruppo interconfessionale di Clero e Laici preoccupati per la guerra in Vietnam. Nel 1967 la Cornell United Religious Work lo invitò ad occuparsi delle fazioni contro la guerra che ribollivano nel campus, e per i tre anni successivi fece esattamente questo. Nel frattempo, da solo e con altri critici di alto profilo della guerra, incenerì i dossier di leva in diversi centri di reclutamento militare, per i quali fu condannato alla prigione federale. Ma invece di andare in prigione, si avventurò in un’ultima esibizione pubblica entrando in clandestinità, lasciando Cornell attraverso una botola nella Barton Hall, ingannando spettacolarmente l’FBI, spesso in piena vista, per quasi cinque mesi fino a quando i federali lo raggiunsero. Chi poteva sapere che un poeta – colui che mi aveva guidato attraverso Vergil – potesse essere così svelto di piede.
La voce della coscienza e della verità al potere del poeta ha radunato centinaia di cornellesi, anche se all’epoca i suoi atti di disobbedienza civile hanno indignato non pochi membri della facoltà e amministratori che erano legati a contratti governativi, e veterani degli alumni che avevano servito in Europa, nel Pacifico, in Corea e in Vietnam. La Kroch Rare and Manuscript Library di Cornell ha finito per onorare i suoi manoscritti inediti, la corrispondenza e gli scritti vari, ospitandoli insieme a più di quaranta volumi delle sue poesie pubblicate, opere teatrali, saggi in prosa e studi letterari nella sua magnifica collezione.
Si dà il caso che io sia un abituè di questa biblioteca per il suo incredibile assortimento di materiali su Dante, Petrarca, Erasmo, Shakespeare, James Joyce e altri che io insegno e di cui scrivo. Sfogliando l’opera del mio ex insegnante, sono rimasto sbalordito nel trovare documenti e bozze di discorsi su autori inaspettati – molti dei quali francesi e italiani – che hanno catturato la mia attenzione professionale: Dante e Gerard Manley Hopkins, comprensibilmente per un uomo di chiesa, ma anche Rabelais, Baudelaire, Pirandello, Wallace Stevens – scrittori e poeti che immancabilmente portano intuizioni nuove e trasformative, ma il cui scetticismo, dubbio e incredulità potrebbero sembrare una cosa strana per un uomo di chiesa. Naturalmente, non è affatto strano. Il nostro impegno nelle scienze umane non è quello di riaffermare ciecamente i nostri valori, ma di interrogarli urgentemente, di portarli fuori dalla nostra zona di comfort sociale, culturale e storica e di esporli alle lacrime delle cose, alla tragedia e alla commedia dell’unico mondo che conosciamo, alla possibilità, solo forse, di curare un giorno dei veri giardini senza alcun contaminante.
Informazioni sul Transformative Humanities Project
I docenti del College of Arts & Sciences condividono la convinzione e parlano spesso con i nostri studenti, i loro genitori e il pubblico in generale dell’importanza delle discipline umanistiche per plasmare vite umane profonde e significative. Queste brevi riflessioni dei nostri docenti illustrano – in modo concreto e personale – come gli incontri con le materie umanistiche siano stati di fatto trasformativi nelle loro vite. Nel comporre queste riflessioni i docenti hanno risposto al seguente compito: Scegli una singola opera umanistica che ti ha profondamente colpito – che ti ispira, ti ossessiona, ha cambiato il modo in cui pensi alle cose, ti ha convinto a perseguire il lavoro della tua vita, ha reindirizzato il lavoro della tua vita… in breve, un’opera che ha reso la tua vita in qualche modo più profonda o più significativa.
Questa riflessione è uno dei molti contributi di facoltà stimolanti e stimolanti al progetto “Transformative Humanities”, parte del College of Arts & Sciences’ New Century for the Humanities celebrations. Leggete di più sulla nostra pagina “New Century for the Humanities”.